Progetto Alba Ideale


Nel 2001 risposi ad un annuncio di ricerca di un bassista e mi trovai catapultato in una band meravigliosamente pretenziosa, come da migliore tradizione seventies. Il gruppo era il progetto Alba ideale, e si fondava sulle idee di Luca Salvetti, valido chitarrista ed “architetto” musicale, e di Paolo Vallebona, cantante eclettico innamorato di Stratos. Le prove del PAI si dividevano in tre fasi: arrangiamento del (poco) materiale che avevamo per le mani, improvvisazione monoaccordo (il re minore era sempre gettonato) e ore di discorsi su come fare evolvere il gruppo e il suo sound. Nel PAI transitarono vari strumentisti, e la stabilità fu sempre una chimera, ma riuscimmo a registrare un eroico demo per un concorso per emergenti, “una suite per un anno”; il concorso, indetto dalla trasmissione radio form genesis to revelation, richiedeva un brano di durata compresa tra i quindici e i venti minuti, e a noi sembrò sposarsi perfettamente con i nostri ideali estetici.
L’unico brano in cantiere all’epoca era una cavalcata epica sulla morte di Dio (aforisma 125 della “Gaia Scienza” di Nietzsche): riuscimmo a far convergere un po’ di idee per allungarlo e trasformarlo in un brano che avesse la lunghezza giusta ed anche un senso compiuto, anche grazie ad un bel solo di piano, qualche stacco “epico”, un momento etnico / mistico con didjeridoo, un “bolero” chitaristico un finale floydiano con solo di synth.
La registrazione fu qualcosa di più epico del brano stesso: nella band eravamo in sei (due chitarristi, tastierista, voce, batterista e il sottoscritto al basso) e a disposizione avevamo solo un ADAT con otto canali e un mixerino. Facendo i salti mortali, trasformammo la sala prove in studio di registrazione, piazzando i microfoni e premixando la batteria in modo che occupasse solo due canali. Per l’occasione comprai un compressore behringer di ridicola qualità audio e provai ad imparare ad usarlo (con qualche risultato discutibile). La voce di Paolo, a causa dell’inesperienza di studio, fu soffocata da un fruscio esagerato (“potete abbassare l´effetto del vento?”).
Ricordo pannelli di compensato e vario materiale casuale buttato letteralmente addosso al povero batterista in modo da creare una sorta di box in cui isolarlo acusticamente. In realtà rischiammo ripetutamente di soffocarlo. Il periodo delle registrazioni era particolarmente caldo, e più di una volta rinunciammo al refrigerio dell’unico ventilatore della sala prove per puntarlo sull’ADAT che a causa della temperatura tendeva ad impazzire.
Anche creare un mix con i nostri mezzi fu un vero e proprio delirio: avendo più strumenti che tracce a disposizione, dovemmo calcolare minuziosamente la divisione e prendere decine di pagine di appunti per il successivo mixaggio.
Il mix fu la ciliegina sulla torta: ci procurammo un secondo ADAT e il cavo per sincronizzarlo, e passai un paio di notti con il gruppo a tirare su e giù fader e a prendere appunti su un sempre più caotico quadernetto. Il risultato fu molto rustico (poi lo rimixammo con cubase, fortunatamente) ma anche ricco di soddisfazioni. Il brano piacque ai ragazzi di from genesis to revelation e fummo selezionati per suonare al Bloom di Mezzago; quel giorno suonammo con floating state, giobia, ancestry e un paio di altri gruppi fighi: gli unici del lotto a sciogliersi senza pubblicare un album fummo noi del PAI.
Del concerto ricordo un palco spettacolare, la sensazione di fratellanza quasi carbonara, Paolo in ritardo di un paio d’ore per il soundcheck che entra in bagno e fa risuonare gorgheggi stratosiani in tutto il locale; ricordo di avere goduto come un matto con i Giobia e di aver “fumato” ingloriosamente uno stacco basso/batteria.

Il PAI tornò galvanizzato dall’esperienza, e continuò a lavorare con ritmi molto tranquilli a brani ulteriori. Solo un paio di altre registrazioni furono partorite in mesi di prove, lavori, discussioni.
Per un paio di mesi venne in sala un sassofonista che citava Coltrane come sua influenza; alla prima prova suscitò qualche perplessità perché sembrava essere costantemente fuori tonalità. Visto che i pezzi non giravano benissimo, tirò fuori il coniglio dal cappello: “volete sentire qualcosa di pazzesco? Eccovi il suono della giungla!”; cominciò a smontare il sax e rimase con solo ancia e bocchino. Prese un paio di minuti per prepararsi mentalmente e poi soffiò con forza, emettendo una sorta di pernacchia sconfortante.