Mi piacciono gli strumenti ritmici


E’ il 2001, nella Genova pre-G8. Suono in un gruppo, naturalmente di emergenti, di passaggio; ci chiamiamo Luther Blissett, un nome che significa tutto e nulla, collettivo, forse alibi per la mancanza di fantasia; “essere famosi anonimamente”, o un tentativo di risolvere il paradosso della fama?

Alejandro J Blissett, chitarre. Carlos Blissett, basso (che sarei io) Matteo Blissett, voce e chittarrina acustica. William Blissett, batteria. Tutti fratelli, o cugini.

E’ il 2001, dicevamo. Nei vicoli la polizia e i carabinieri colgono ogni occasione per “ripulire” la città, senza preavviso entrano, ispezionano, multano, chiudono.

E’ un venerdì sera, i vicoli sono umidi, stretti; ci aspetta il Brancaleone, locale minuscolo ma caldo e ospitale, pochi metri quadrati che sono probabilmente anche la copertura di qualcos’altro, ma non vogliamo saperlo; se c’è l’occasione si suona e basta. Non c’è l’impianto voce, ma un mio vecchio amplificatore da basso, un Peavey TNT, viene riadattato all’uopo: la voce esce di lì, e a chi ti dice che è scura basta indicare quella cassa da dodici pollici.

Portare gli ampli, il basso, la cassa, i fusti, la chitarra, i tom, i piatti, le aste, il seggiolino, financo il microfono e i cavi, è pesante. Ed è retorica dire che l’entusiasmo serva ad alleggerire, perché i vicoli stretti e irregolari portano sudore e bestemmie e borse che cadono e infiniti avanti e indietro con auto parcheggiate chissà come.

Il montaggio del palco è un piccolo capolavoro di architettura: in realtà non c’è un vero e proprio palco, ma bisogna ricavare un angolino tra i tavolacci di legno, con spazio sufficiente perché quattro persone riescano ad imbracciare gli strumenti senza colpirsi reciprocamente in faccia con le palette, le bacchette della batteria, il microfono. Willy, il batterista, ha portato un tappetino per la cassa, che tende comunque a sfuggire in avanti; il mio piede è lì, pronto a fermarla mentre scappa. E poi, tenendo un piede sulla cassa il bassista va più a tempo. O almeno sembra. O almeno fa figo.

Montiamo. Mangiamo. Scriviamo la scaletta. Arrivano amici.

L’entourage del locale sembra curiosamente preoccupato, girano bisbigli e le facce si fanno cupe. Sono le 22, a breve dovremmo cominciare a suonare. Loro si aggirano per il bar e cominciano a chiedere chi di noi abbia la tessera; nessuno risponde. Vanno a frugare dietro un bancone, esce *** con una pila di tessere. Sono del 2000, hanno nomi di signori che non abbiamo mai visto nè sentito, nati negli anni 40 e 50; le distribuiscono. Si capisce che sta per avvenire qualcosa, e non è esattamente correlato con il nostro concerto. C’è fremito, palpabile.

Alle 23, si parte. Due accordi: la minore, fa maggiore; è la nostra all along the watchtower, dilatata all’inverosimile, i bpm dell’originale dimezzati, la durata teoricamente raddoppiata. Ma, prima ancora che Matteo, il cantante, cominci ad emettere le prime note, vediamo tre divise avvicinarsi minacciose.

“fermi tutti”

“perché? che succede?”

“questo concerto non è autorizzato”

“ma questo è un circolo culturale”

“cosa c’entra?”

“la musica è cultura”

“non penso proprio. le tessere?”

“tutti hanno la loro, controllate”

Naturalmente, il controllo non è dei più fortunati per il Brancaleone. Nessuno di noi (o forse quasi nessuno) dimostra cinquanta / sessant’anni, stempiature permettendo.

Un rapido sguardo incrociato.

Idee. Willy: “hanno aperto un locale qui dietro.”

“Ma belin, Willy, abbiamo appena finito di camallare!”

“Allunghiamo di venti metri…”

Sembra la solita idea sballata, ma basta il solo fatto di suonare rock a Genova per renderti in qualche modo impermeabile allo scetticismo.

Smontiamo, mentre i cantunè verbalizzano efficienti. Alle nostre spalle si consuma la fine del brancaleone, mentre eroicamente trasferiamo tutto alla vicina cittadella; suona un gruppo jazz: bravi, precisi e puliti, altro che noi! Willy entra, e chiede se possiamo fare un paio di pezzi dopo di loro; abbiamo gli strumenti, gli ampli, la batteria. “siete organizzati, come dirvi no?”

Rimontiamo tutto, e intanto la mezzanotte è già passata da un po’; il locale è piccolo e frequentato: spiccano un paio di ragazze, palesemente alticce.

Con le prime note una di loro di due sale sul palco: è minuta, molto carina, e comincia a strusciarsi voluttuosamente su di me. Io rimango bloccato, le dita senza controllo continuano a suonare una nota della strofa, mentre il pezzo arriva al ritornello; Ale mi lancia un urlo, lei mi sussurra “mi piacciono gli strumenti ritmici”, con voce suadente e scende.

Continuiamo a suonare per quaranta minuti, e appena emessa l’ultima nota dell’ultimo pezzo mi precipito alla ricerca della tizia. La vedo emergere dal bagno in stato di semiincoscienza, con gli occhi ridotti a fessure. “La porto a casa io, forse ha bevuto un po’ troppo”, dice la sua amica che la sta sorreggendo.

Ovviamente non la rivedrò mai più.